#121 La coscienza della morte come effetto del Peccato Originale (3° Parte)
La coscienza della morte come effetto del Peccato Originale (3° Parte)
Con il peccato originale da noi inteso come il passaggio da scimmia antropomorfa ad homo sapiens, i geni del DNA umano, dominando sul DNA di tutte le altre specie viventi, si sono apparentemente garantiti l’immortalità; lo stesso non è avvenuto per la loro macchina di sopravvivenza rappresentata dall’uomo stesso. Quest’ultimo, anzi, con il Peccato Originale acquisisce la piena coscienza della propria morte.
Con la conoscenza acquisita mangiando il frutto proibito, all’uomo deriva una terribile consapevolezza: la certezza che prima o poi egli morirà. Le parole ebraiche della genesi “מות תמות (mohth tamuth)” sono tradotte in vario modo; letteralmente sarebbe “morendo morirai”, ma personalmente abbiamo deciso di utilizzare la traduzione “positivamente morirai”, “certamente morirai[1]”. In questo modo le parole ebraiche della genesi stanno a significare che l’uomo, unico fra tutti gli animali, mammiferi compresi, sa di dover morire. La conoscenza di questa terribile verità è a nostro parere la conseguenza più drammatica della consapevolezza acquisita con il passaggio da scimmia a uomo. Ancora più disastrosi tuttavia sono i risultati dei tentativi illusori dell’uomo di negare a sé stesso questa verità.
Se pensiamo a tutti i grandi del passato che sono passati alla storia, Alessandro Magno, Giulio Cesare, Napoleone, etc…, secondo il pensiero comune è come se tutti quegli uomini avessero raggiunto una sorta di immortalità.
In realtà siamo più noi a percepire questi personaggi come immortali, perché non possiamo sapere come percepissero loro stessi il fatto che sarebbero stati ricordati in eterno. Il concetto di immortalità storica è forse più nostro che loro, soprattutto se pensiamo agli ultimi momenti della loro vita. Alessandro Magno morì giovane dopo una penosa agonia.
Giulio Cesare fu assassinato a morte anche da colui che aveva adottato.
Napoleone morì su un isola remota dell’Oceano Atlantico per un cancro allo stomaco.
Ma pur supponendo che questi personaggi possano aver percepito, mentre erano ancora in vita, la loro immortalità storica, tutto ciò è avvenuto a prezzo di immani sofferenze da parte di moltissimi altri uomini.
Pur tuttavia, quelli dei grandi personaggi del passato sono comunque esempi “positivi”, se non altro a livello di civilizzazione[2].
Molto più drammatici sono altri illusori tentativi di esorcizzare la morte. Individui in cui i geni dell’aggressività sono particolarmente espressi, basti pensare ai boss mafiosi, dispensando gratuitamente la morte in un certo senso se ne appropriano e la utilizzano a proprio piacimento.
La tendenza genetica all’aggressività estrinsecandosi nell’omicidio partecipa comunque al meccanismo a feedback genetico a retroazione negativa, volto alla riduzione dell’abnorme crescita della popolazione umana. Non sappiamo quanto grande possa essere il piacere che un individuo aggressivo provi nell’uccidere personalmente o se dotato di potere, di comminare uno o più omicidi ma non possiamo escludere che tale piacere possa fargli dimenticare la terribile verità che prima o poi anche lui dovrà morire.
Un altro modo per appropriarsi, illusoriamente, della morte e gestirla “a proprio piacimento” è quello del suicida.
Individui con prevalenza di geni della depressione e del suicidio preferiscono essere loro a scegliere quando uscire di scena anziché aspettare passivamente che sia la morte a decidere. Decidere quando e come morire potrebbe essere un altro modo per esorcizzare il terrore della morte. Poiché il suicida è mosso dal tentativo di eliminare le sofferenza che il male di vivere gli procura, la morte è per lui una sorte di medicina che egli volontariamente decide di prendere. [3].
[1] Ma in quanto all’albero della conoscienza del bene e del male non ne devi mangiare, poichè nel giorno in cui ne mangerai positivamente morirai. (Genesi 2:15-17)
[2] Basti pensare alla diffusione della civiltà greca, alla gran parte del mondo orientale da parte di Alessandro Magno, all’opera di romanizzazione della Gallia da parte di Giulio Cesare, al Codice Napoleonico.
[3] Socrate, in punto di morte, considera il proprio suicidio una guarigione dal male di vivere e come tale chiede ai suoi amici di fare un sacrificio ad Esculapio, (Asclepio per i greci) Dio della medicina. E già la parte inferiore del ventre veniva ormai raffreddandosi quando [Socrate] si scoperse il volto che già era stato scoperto e disse ancora queste parole (le ultime da lui precisate): ” O’ Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio; dateglielo, e cercate di non dimenticarvene. Platone Fedone LXVI
Segue in:
4. La coscienza della morte come effetto del Peccato Originale (4° Parte)
Vedi anche:
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