#122 La coscienza della morte come effetto del Peccato Originale (4° Parte)
La coscienza della morte come effetto del Peccato Originale (4° Parte)
Anche il suicidio rientra nel meccanismo a feedback genetico o a retroazione negativa in azione nella popolazione umana, oltre ad essere un tentativo illusorio di esorcizzare la coscienza della morte.
Esistono altri metodi apparentemente meno traumatici per esorcizzare la consapevolezza di essere comunque destinati a morire. Uno di questi può essere l’edonismo sfrenato.
Fino a qualche secolo fa, nei periodi in cui impazzava la peste nera, molti uomini, non sapendo se il giorno dopo si sarebbero infettati con il terribile morbo, si dedicavano senza freni ai piaceri del corpo.
Altri tentativi di annullare la consapevolezza della morte possono sembrare meno evidenti ma non di meno ci mostrano quanto sia difficile per l’uomo convivere con la conoscenza del proprio destino finale.
La ricerca estrema di un ideale di bellezza e classicità sembra riuscire nell’intento di annullare l’angoscia della morte. Un esempio per tutti è quello del conte Jacques Fersen (1880-1923). Con la costruzione a Capri della sua meravigliosa Villa Lysis, iniziata nel 1904, l’aristocratico francese intese realizzare una sorta di acropoli greca o di emulare la Villa di Tiberio, presente sempre a Capri.
In questo eremo incantato egli trascorse parte della vita coltivando un ideale di bellezza e di libertà assoluta, quest’ultima intesa come libertà di vivere senza restrizione alcuna la propria omosessualità. Ciò non impedì a Fersen di decidere di porre fine alla propria vita a soli 43 anni, sciogliendo 5 gr di cocaina in una coppa di champagne.
Nell’epoca attuale dove regna indiscusso un materialismo inesorabile si arriva al punto di programmare la propria immortalità futura facendosi ibernare.
Tra l’altro, lo scopo dell’ibernazione non è quello di conservare del DNA per una clonazione, attualmente già possibile, quanto di sperare che in un futuro la scienza possa trovare la cura per la malattia che ha portato al decesso. Ciò ci fa capire quanto l’uomo che sceglie di farsi ibernare sia attaccato al proprio corpo già corrotto dalla malattia. Tuttavia, l’ibernato come potrebbe, una volta scongelato, guarire da una malattia che lo ha già condotto alla morte?
Secondo una leggenda persino la polvere da sparo sarebbe stata inventata dagli alchimisti nel tentativo di scoprire l’elisir dell’immortalità.
Tutte le religioni hanno cercato di affrontare il problema della morte, anzi possiamo dire che sono nate proprio per rispondere alla domanda se vi sia una vita dopo la morte.
Data l’impostazione de “Il Virus Intelligente” in cui è evidente che l’autore non ammette l’esistenza di una qualsivoglia trascendenza, resta da vedere se vi siano religioni che si pongono il problema della morte senza far riferimento ad alcuna divinità.
In effetti, San Francesco, nel cantico delle creature, parlando della morte afferma: “Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare”.
A ben vedere, le creature di cui egli parla nel suo cantico sono tutte manifestazioni della natura di cui egli loda l’esistenza e la funzione.
Potremmo dunque dire che a ben vedere anche San Francesco, alla stregua di Leonardo, consideri la natura come Dio stesso.
Esiste tuttavia una religione nata proprio per rispondere, non tanto alla domanda se esista una vita dopo la morte, quanto al problema della morte stessa. Questa religione è il buddismo nell’interpretazione data dal monaco buddista Nichiren Daishonin (16 febbraio 1222 – 13 ottobre 1282).
Nel gosho[1] “l’importanza del momento della morte[2]” Nichiren Daishonin scrive “se mi guardo indietro, è da quando ero ragazzo che sto studiando gli insegnamenti del Budda. Allora pensavo: «la vita dell’essere umano è fugace. Non sempre ad un respiro ne segue un altro[3]. Nemmeno la rugiada che svanisce al vento è una metafora adeguata. Nessuno, saggio o stolto, vecchio o giovane, sa mai che cosa gli accadrà nell’istante successivo. Così va il mondo! Perciò prima di tutto dovrei studiare ciò che riguarda il momento della morte e poi tutto il resto».
Analizzando criticamente il termine “studiare” non ritengo si possa negare un approccio per così dire scientifico di Nichiren Daishonin al problema della morte.
Quale risposta il fondatore del Buddismo Shākyamuni e il monaco buddista Nichiren Daishonin hanno dato a questo problema è un altro discorso, che forse affronteremo in seguito.
[1] Con il nome Gosho (dal giapponese go prefisso onorifico, sho scritti) si intende la raccolta di tutti gli insegnamenti, i trattati, le lettere che Nichiren Daishonin scrisse ai suoi discepoli, autografi o ricopiati dall’originale autografo andato perduto, e delle lezioni orali che vennero trascritte dal suo successore, il secondo Patriarca (prete)|Nikkō Shonin.
[2] Raccolta degli scritti di Nichiren Daishonin Vol II, pagg 714-716 Istituto Buddista italiano Soka Gakkai 2013
[3] Letteralmente: “l’aria che esce non attende mai l’aria che entra”.
Vedi anche:
- Il Peccato Originale 1°parte
- Il Peccato Originale 2° parte
- La coscienza della morte come effetto del Peccato Originale (3° Parte)
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