Dolce Cara Mammina
( Angeli Ribelli Nona Parte)
Recentemente la cronaca ha riportato svariati casi di figli che hanno ucciso i propri genitori. Oltre alle solite reazioni indignate ed inorridite, gli autori dei crimini hanno trovato consenso ed ammirazione tra i coetanei.
Ad un questionario dal titolo “Io vorrei …” distribuito nelle scuole materne, elementari e medie della provincia di Modena due alunni, di diversi istituti, hanno risposto: “Vorrei uccidere mio padre e mia madre”.
Sino a qualche anno fa, episodi vari, si succedevano sporadicamente nel tempo suscitando momentaneo interesse come fatto di cronaca in sé, e non come “fenomeno di costume”.
Il parricidio inoltre è fenomeno antichissimo e ben altri timori rispetto all’epoca attuale aveva suscitato nel passato.
Nell’antica Roma tale era il terrore dei padri di essere uccisi dai figli che per punire il parricidio aveva escogitato una pena speciale “il supplizio del sacco (poena cullei) . L’autore del delitto veniva chiuso in un sacco di cuoio o di tela, ricoperto di pece, insieme ad un cane, un gallo, una scimmia ed una vipera.
Il sacco veniva poi caricato su di un carro nero, trainato da buoi neri, e trasportato sulle rive del Tevere per essere gettato nel fiume.
Una qualche giustificazione, a discolpa dei figli parricidi, si potrebbe comunque trovare: nel diritto romano nessuno era soggetto di diritto fino a quando il proprio padre era ancora in vita. Il figlio, inoltre, non poteva possedere un patrimonio, tutto dipendeva dalla generosità del padre che poteva assegnargli una somma di denaro, ma allo stesso modo revocarla. E’ ovvio che alcuni figli non aspettassero altro che la morte del genitore “a tuo figlio tu sei già d’ingombro – ricorda Giovenale ad un padre – e stai aspettando veramente troppo per realizzare i suoi desideri; la tua ostinata vecchiezza lo tortura.
Neanche la pena del sacco era tuttavia sufficiente ad arginare il fenomeno del parricidio e così nel 55 a.C. una legge stabilì di punire come parricida anche colui che avesse solo comprato veleno allo scopo di uccidere suo padre, anche senza averlo materialmente fatto ed addirittura, si stabilì che la pena doveva essere estesa anche a chi avesse prestato il denaro occorrente. Neanche questo bastò perché, secondo Tacito e Svetonio, l’imperatore Claudio fu costretto ad applicare la pena del sacco così spesso che questo supplizio divenne più frequente della crocefissione.
Isolati episodi di parricidio, come il caso di Doretta Graneris, che il 13 novembre 1975, insieme al fidanzato, uccise in provincia di Vercelli il padre, la madre, il fratello e due nonni, non destavano dunque, ai tempi nostri, che un momentaneo scalpore,
ed è solo negli ultimi sette anni che il fenomeno ha assunto caratteristiche particolari:
- L’uccisione del genitore non riguarda più il solo padre, ma sempre più spesso la madre con una netta prevalenza per quest’ultima negli ultimi episodi.
- Il numero dei patricidi-matricidi è aumentato negli ultimi sei, sette anni del 100% rispetto alla media degli ultimi 20 anni.
- L’uccisione della madre o del padre trova tale consenso tra i giovani da spingere all’emulazione dando al fenomeno un carattere epidemico.
Questa trasformazione del parricidio-matricidio da episodio occasionale in fenomeno di costume a carattere epidemico inizia con la storia di Pietro Maso che insieme ad alcuni amici uccide a bastonate il padre e la madre per impossessarsi del loro patrimonio[1] e darsi alla bella vita.
A questo sono seguiti una serie di episodi fino al caso di Erika che insieme al proprio fidanzato Omar uccide a coltellate la madre Giusy Cassini ed il fratello Gianluca.
Fin dalle prime battute il caso di Erika dimostra di avere tutte le caratteristiche per attrarre su di sé l’attenzione dei media e mantenerla a lungo:
- l’abnormità del delitto;
- il carattere di perfetta vittima sacrificale della madre Giusy cattolicissima ed irreprensibile madre di famiglia e del fratello Gianluca il cui ultimo tema, pieno di amore, è dedicato proprio alla sorella Erika;
- l’assenza di una figura genitoriale paterna;
- il tentativo di Erika ed Omar di allontanare da sé i sospetti incolpando degli improbabili rapinatori albanesi;
- le accuse reciproche degli stessi Erika ed Omar una volta scoperti.
La vicenda di Erika occupa per lungo tempo le prime pagine di tutti i giornali mettendo in moto il solito circo dei commenti e delle spiegazioni che accompagna episodi analoghi.
Entrano in scena gli psichiatri e con altri professionisti tentano di spiegare il fatto che una ragazzina di sedici anni, insieme al suo fidanzato di diciassette, infligge cinquanta coltellate alla madre e cinquantadue al fratello con un coltello dalla lama lunga 18 centimetri: queste le loro argomentazioni (lascio al lettore ogni commento!):
- Mancanza di gratificazioni nella gabbia della famiglia (Aldo Carotenuto, psichiatra);
- Mancata ricezione da parte dei genitori di segnali evidenti di disagio (Maria Teresa Crotti, Psicoterapeuta dell’Infanzia e dell’Adolescenza);
- Disturbo di personalità caratterizzato da narcisismo (Luigi Cancrini, psichiatra);
- Non li sappiamo ascoltare (Paolo Crepet, psichiatra)[2];
- In quella famiglia doveva esserci un forte disagio (Paolo Crepet);
- Erika non ha ucciso una persona ma un’idea (Paolo Crepet);
- Siamo sul “sentiero dell’orco assassino[3] (Maria Rita Parsi, psicoterapeuta);
- Possessione diabolica (padre Gabriele Amorth, esorcista);
- Satanismo (Viator, mensile di ispirazione cristiana[4]);
- “Se vogliamo trovare un filo che leghi i più recenti delitti di minori, lo abbiamo in famiglie che hanno tanto amore verso i figli ma che risultano incapaci di essere autorevoli e normative” (Livia Locci, pubblico ministero).
[1] Al momento non abbiamo più notizie della posizione giuridica di Pietro Maso, ma all’epoca dei fatti i giornali avevano rivelato che essendo egli, insieme alla sorella, l’unico erede del patrimonio dei genitori uccisi, quale che fosse la sua condanna, egli sarebbe comunque riuscito ad impossessarsi di tale eredità.
[2] Forse sarebbe stato il caso di “ascoltare” veramente la stessa Erika quando nel suo diario afferma “Guardano solo lui: come è bravo a scuola Gianluca, come è bello Gianluca”.
[3] Interpretazione allegorica.
[4] Il fatto che a tredici anni Erika parlasse di animali seviziati e disegnasse pugnali e forchette grondanti sangue potrebbe più semplicemente confermare la propensione all’aggressività della fanciulla.
Segue in;
X)Parricidio (Dolce Cara Mammina -Angeli Ribelli Decima Parte)
Vedi anche :
I)Aggressività Umana Intraspecifica (Angeli Ribelli Prima Parte)
II)Aggressività Umana Intraspecifica (Angeli Ribelli Seconda Parte)
III)Aggressività Umana Intraspecifica (Angeli Ribelli Terza Parte)
IV)Aggressività Umana Intraspecifica (Angeli Ribelli Quarta Parte)
V)Aggressività Umana Intraspecifica (Angeli Ribelli Quinta Parte)
VI)Aggressività Umana Intraspecifica (Angeli Ribelli Sesta Parte)
VII)Aggressività Umana Intraspecifica (Angeli Settima Parte)
VIII) Aggressività Umana Intraspecifica (Angeli Ribelli Ottava Parte)
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